sabato 19 dicembre 2020

LIBRI ABBANDONATI

Ci sono libri che hanno una voce, una voce vera, forte e chiara, una voce che chiama e a volte urla, invita o interroga. Sono libri che appaiono d'improvviso, nei cataloghi degli antiquari o su qualche bancarella, titoli sconosciuti o autori in incognito, copertine spesso banali o fin troppo ricercate, edizioni private, magari stampate in poche copie “per gli amici”. Libri ai quali ci si può affezionare per la vita, perché raccontano storie vere, laceranti, con la scrittura che fa da terapia del dolore all'autore o all'autrice, contribuendo ad accendere una fiammella di speranza per il domani. 
Non sapevo chi fosse Lydia Schwarz, nome adatto per il titolo di un film o di un noir, né conoscevo il perché avesse pubblicato un libro dalla copertina così elegante e stampato a Milano da un grande artigiano come Luigi Maestri. Un romanzo? Dei racconti? Un saggio? L'inserzione era vaga, ma il titolo mi catturò immediatamente, attirandomi come una calamita verso l'acquisto, pochi euro, nemmeno il prezzo della rilegatura: "Poltrona vuota alla Scala”.



Andrea Camilleri, nell'unico mio incontro con lui, mi disse: «Sono i libri che ci vengono a cercare, noi ci illudiamo del contrario». Il romanzo di Lydia Schwarz, perché di romanzo si tratta, arrivato per posta dopo qualche giorno, faceva di tutto per essere letto immediatamente: la carta di qualità leggermente ingiallita dagli anni -il libro è del 1966- la copertina ocra con la raffinata cornice nera che ingloba autrice, titolo, disegno e anno di stampa, le tavole interne con ingenui schizzi a china, si manifestavano con una voce potente, come se Lydia fosse lì a parlarmi.
Chi era Lydia? Ebrea, come potrebbe far supporre il cognome? Parente magari di Arturo Schwarz? Non risulta. Su Google niente di niente, che sia uno pseudonimo? Apro il volume. Prima sorpresa, c'è una dedica autografa: “Villareale "DACIA" agosto 1976. Con amicizia! Lydia Schwarz” Il mistero si infittisce, ormai Lydia è una di casa, conosco la sua grafia, limpida, ampia, volitiva. Tutto mi dice che questo sia il suo unico libro, la storia della sua vita e di chi ha amato con disperata furia, un uomo importante, ricco, con il quale ha condiviso un'esistenza esaltante ma angosciosa, fuori dal matrimonio ma legata indissolubilmente a lui più della moglie legittima. 
Il 23 aprile 1963 Virgilio Auselmi morì in circostanze non chiare, e Lydia stette due mesi rinchiusa nella sua stanza in una muta disperazione. Poi  trovò un quaderno intonso di Vittorio, il figlio avuto dall'amato, e piano piano si mise a scrivere quello che sarebbe diventato il romanzo più vero che abbia letto negli ultimi anni. 
La poltrona vuota alla Scala, naturalmente è quella in cui Virgilio sedeva accanto a lei nei giorni lieti, quando potevano vedersi tra un consiglio di amministrazione e gli infiniti viaggi di lavoro di lui, lontani dalle minacce della moglie e dagli ammonimenti della famiglia di lei, cattolicissima e avversa ai legami extraconiugali. 



Lydia nasce bene, la madre discende da una nobile e ricchissima famiglia veneta, il padre ha un'azienda, ma a 49 anni muore di crepacuore per il ventilato fallimento della ditta, lasciando la moglie sola e senza sostegno con nove figli. Virgilio è l'erede di un grossa fortuna, il padre Vittorio possiede a Padova una delle più importanti aziende metalmeccaniche d'Italia, che ha fondato nel 1906 e ingrandito negli anni. Il figlio è un genio della meccanica, destinato a succedergli e a fondare un nuovo stabilimento modello, sul modello dell'utopia olivettiana. Lui e Lydia si conoscono durante una gita in automobile, sono fatti l'uno per l'altra e lo capiscono subito, si sarebbero amati fino alla morte. 
Lui ha sposato controvoglia una donna che lo aveva sedotto, lei non ha avuto altri amori e gli si è consacrata, allontanandosi per dieci anni, con una pena infinita, per lavorare a Roma dopo che la sua famiglia aveva scoperto il loro legame. Lydia torna a Padova con una malattia rara e devastante, ma con un coraggio sovrumano si sottopone e due durissimi interventi chirurgici e guarisce, grazie all'amore ritrovato di Virgilio, ma non a quello della madre e dei fratelli. 
Si sposano per finta scambiandosi gli anelli, lei gli dona la sua verginità lui la sua vita, perché da quel momento la loro esistenza è fatta di case affittate e lasciate, di fughe verso brevi vacanze al mare, di ricatti e minacce da parte della moglie legittima, di problemi anche gravi dell'azienda da risolvere, di continui viaggi di lavoro in ogni parte del mondo. 
Lydia aspetta, e partorisce Vittorio, a cui Virgilio non può dare il suo nome perché la moglie gli rifiuta la separazione, le lettere di lui, pubblicate alla fine del libro in facsimile, precedute sempre da "W Lyvirvit”, lettere iniziali dei tre nomi della loro piccola famiglia, traboccano di passione ma anche del timore che possa accadere qualcosa di irreparabile. 


Che puntualmente accade. Virgilio si ammala, a poco più di 50 anni, diabete e grave depressione da super lavoro, insonnia e incubi, i nervi cedono, invecchia precocemente e dopo diverse crisi e svenimenti improvvisi, viene ricoverato a forza in una clinica per la cura del sonno. Quando la salute sembra ritornare, la crisi finale, il cuore cede di schianto, la mattina stessa in cui Virgilio sarebbe dovuto uscire dalla clinica e rivedere finalmente Lydia. Così, almeno, è quello che le fanno credere, però ci sono altre ipotesi sulla morte, che sarebbe avvenuta nella villa di famiglia di lui, o addirittura nel bagno della clinica. Lydia non conoscerà mai la verità, né potrà seguire i funerali dell'adorato compagno, da amante nascosta e detestata. 
La lettura mi ha tenuto avvinto per un giorno e mezzo, la scrittura è sempre viva e pulsante, priva di retorica e lucida anche nei momenti di strazio, Lydia è una donna forte, sostenuta da un amore immenso, che vuole gridare a tutti e lasciare nel suo testamento letterario. Una storia d'amore come non ne esistono più, vissuta tra il dopoguerra e il boom economico, tra i pregiudizi e le censure del Veneto ultra cattolico, tratteggiati poi da Pietro Germi in "Signore & signori”, le delazioni e i contrasti famigliari. 
«Raggiungeremo la meta finale anche se sul nostro cammino troveremo ostacoli su ostacoli. Poiché tu sei mia da 18 anni e sarai mia per l'eternità. È venuto poi il frutto del nostro amore e questo ha congiunto l'anellino. Ora verrà il resto a costo della mia vita stessa se ce ne fosse bisogno», scriveva Vir, il diminutivo con cui Lydia chiamava il suo uomo, il 16 maggio 1954. Fu tristemente di parola. 
Ho scoperto chi era Lydia Schwarz e mi sarebbe piaciuto conoscerla, parlare a lungo con lei per guardarla negli occhi e prendere un poco della sua forza, del suo coraggio e della sua abnegazione. E, alla fine, stringerla in un abbraccio. 

p.s. 
Ho ritrovato il nome dell'azienda di Virgilio (nella realtà Virginio) e il suo vero cognome, trasparente sotto quello usato da Lydia nel libro, e forse il figlio Vittorio ancora vive e magari si occupa degli affari di famiglia. Ma di Lydia Schwarz non vi è traccia alcuna, è volata via, con il suo nome misterioso, affascinante come lei, donna bionda e snella, che ha saputo con le parole tenere viva per sempre la leggenda del suo amore. 

p.p.s. 
Su ebay c'è qualche copia del libro. In questi tempi di algida socialità, qualche lacrima di commozione può aiutare a ritornare umani. 


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