sabato 30 gennaio 2016

Maria Farneti, la voce aristocratica

Maria Farneti in Madama Butterfly

FORLI' - Ecco un libro che i cultori delle "voci antiche” devono assolutamente conoscere, per la ricchezza della documentazione e la piacevolezza del racconto, quello della vita di Maria Farneti, splendida donna e cantante raffinata, nata a Forlì nel 1877 e protagonista di una luminosa anche se breve carriera, nell'epoca d'oro del Belcanto.
Roberta Paganelli, forlivese, ex insegnante di materie letterarie, già acuta biografa di Gea della Garisenda, che intonava "Tripoli bel suol d'amore” avvolta nel tricolore, del leggendario tenore Angelo Masini, del soprano oggi dimenticato Juanita Caracciolo e di Ines Lidelba, diva dell'operetta, ci fa conoscere la vita di Maria, il suo giovanile splendore e la consapevole maturità. 
«Maria Farneti ha sfoggiato, nel privato, grazia di portamento, di acconciature, di toilette, conciliando un vitino quasi da vespa con un busto prosperoso e un vitino amabilmente paffutello», scrive il musicologo Gianni Gori nella prefazione del volume, pubblicato dalle Edizioni Grafikamente di Forlì (pp. 238, euro 25) con un ricco corredo iconografico e una postfazione di Giancarlo Landini.
Interprete dalla “voce aristocratica”, «come la maggior parte dei soprani lirici del periodo si dedicò quasi esclusivamente al repertorio verista, ma con un'emissione corretta ed accorta che poneva nel massimo risalto la bellezza del timbro e le consentiva una vasta gamma di sfumature e modulazioni», scrisse Rodolfo Celletti, tra i massimi esperti di vocalità. «La sua voce, pur capace d'inserirsi con accenti intensi nel vivo delle frasi martellate tipiche del verismo, si manteneva quasi sempre pura e musicale».
Erano i tempi in cui un cantante in carriera andava da un capo all'altro del mondo con interminabili viaggi in nave, e anche Maria Farneti fu protagonista di lunghe tournée soprattutto nei Paesi dell'America Latina, in un periodo in cui splendevano gli astri di Tamagno, Caruso, De Lucia, De Luca, Titta Ruffo, e di Cesira Ferrani, Rosina Storchio, Salomea Krusceniski, e gli aedi della nuova scuola, Mascagni, Leoncavallo, Franchetti, Zandonai, Alfano, contrastavano il successo di Puccini e dell'ultimo Verdi.
Maria Farneti fu grande soprattutto nelle mascagniane "Isabeau”, "Iris" e "Amica”, ma anche in "Madama Butterfly”, nel capolavoro di Catalani "Wally”, in "Pagliacci” e "Andrea Chénier”, e si cimentò, come era prassi del tempo, anche in opere di illustri sconosciuti, come la "Fata Morgana” di De Miero, l'"Abul” del brasiliano Alberto Nepomuceno, o “Sperduti nel buio”, di Stefano Donaudy. 
Grazie a un accurato e dettagliatissimo lavoro di ricerca, Roberta Paganelli, nel sessantesimo anniversario della scomparsa del soprano, avvenuta nel 1955 dopo una non breve malattia, prende in esame ogni aspetto della sua vita, i rapporti con l'amante Pietro Mascagni e con Giacomo Puccini, i viaggi di lavoro nel mondo, la vocalità e il repertorio, la cronologia completa delle opere e dei concerti, e completa il volume con una splendida rassegna fotografica che mostra Maria Farneti in tutto il suo splendore di “donna biscuit” della Belle époque, nelle immagini alla moda realizzate nello studio Varischi & Artico. 
Ecco come la rivista "Ars et Labor” pubblicata da Casa Ricordi, tratteggia, nel numero dell'agosto 1906, il successo di Maria Farneti in Madama Butterfly: «Nella parte della soave figurina da paravento, che l'amore e il dolore rendono grande quanto le luminose protagoniste dei più celebrati poemi drammatici, in questa parte ben si può dire che la signora Farneti trovò e rivelò completamente sé stessa: un'artista incedente per le rigide vie dello studio, sprezzante di tutto ciò che è convenzione, spolvero, mezzuccio, un'artista che sente il verbo di un'arte lirico-teatrale più evoluta, ed assurge ad irradiarsi al sole della gloria più pura».
Quella voce “aristocratica” fu incisa nel 1917 in alcuni dischi per la Società Italiana di Fonotipia fondata nel 1904 e diretta da Umberto Giordano, e molto più tardi, quando la cantante si era ormai da tempo ritirata dalle scene, per la Columbia.
Grazie alla sapienza del torinese Sergio Alfonsi, tra i maggiori collezionisti di 78 giri d’Europa, la discografia di Maria Farneti è un valore aggiunto del libro. Vi si scoprono assolute rarità, come il Columbia GQ7160 con le romanze “La luna e l'usignolo” e "La rose rouge”, di Sonzogno il Fonotipia con "D'amor sull'ali rosee” dal "Trovatore”, una delle poche incursioni verdiane del soprano forlivese.
Maria Farneti convolò a nozze con il ricco avvocato Luigi Riboldi, impresario teatrale e amministratore delegato della potente società Suvini Zerboni. Il marito le diede come condizione per il matrimonio quella di lasciare le scene, e Maria, dopo una carriera internazionale, con successi soprattutto ottenuti nelle lunghe e sfibranti tournée sudamericane, con compagni di palcoscenico come Enrico Caruso, Giuseppe De Luca, Piero Schiavazzi, Eugenia Mantelli e direttori come Toscanini - che a lungo la corteggiò - Serafin, Mancinelli, Mugnone e Panizza, si ritirò nella grande villa di Brunate, o in quella faraonica acquistata dal marito a Copreno, con 108 stanze, dove ospitava per giorni gli amici musicisti.
Ma il demone del canto non la lasciò, tanto da tornare in sala d’incisione nel 1931 e regalarci, a 54 anni, il suo testamento musicale, con superbe interpretazioni di “Iris”, “La Wally” e l’amata “Madama Butterfly”, resa così magistralmente in teatro tanto da far scrivere a Puccini, in un’accorata lettera a Maria datata 1907: «Lei può salvare la mia Butterfly a Lucca! Io la prego con tutte le mie forze di voler accondiscendere a cantare le ultime quattro recite».



La copertina del libro di Roberta Paganelli

Una bellissima Maria nel costume di Herodiade

Iris di Mascagni

Farneti in Manon Lescaut

Tosca

La cantante nel periodo di massimo splendore

giovedì 28 gennaio 2016

Viaggio nella desolazione

VOLTORRE - Giornata grigia, giusta per ripassare i luoghi del "Bigio” Conconi, lo scapigliato che agli inizi del '900 abitò il Chiostro di Voltorre per starsene in santa pace lontano dai sussulti milanesi e dipingere la quiete del lago. Lo andava a trovare Carlo Linati in qualche suo vagabondaggio fuori porta, a piedi o in bicicletta, e il barbuto pittore, tra una pennellata a un quadro con rospi e pipistrelli e la raccolta della frutta nel cortile (ci aveva piantato meli e peri) la raccontava su, dicendo di come gli mettevano i bastoni tra le ruote, perché lui il chiostro l'avrebbe voluto comperare e viverci con la famiglia. E probabilmente il suo spirito sta ancora lì, caparbio e sognatore, a far capire a tutti che il chiostrino è ancora suo e nessuno ci può metter piede senza il suo consenso. 
Oggi il capolavoro del romanico è di fatto un non luogo, uno straordinario monumento lasciato a sé stesso, senza una tutela, senza un programma che contempli un suo utilizzo come sede di mostre, concerti, convegni e tutto ciò che di bello si potrebbe organizzare in una sede di così unico splendore. Irrimediabilmente chiuso, con un candido foglio A4 con logo della Provincia di Varese, imbustato in plastica e appiccicato con lo scotch sulle porte d'ingresso che avverte di fantasmatiche aperture (opening time, per le migliaia di turisti stranieri certamente in coda, ma siamo o non siamo Land of tourism?) venerdì, sabato e festivi, dalle 9 alle 18, a che fare non si sa, a che vedere non si immagina, monta soltanto la curiosità di arrivarci di venerdì e spiare se e chi comparirà all'ingresso a dare il benvenuto.
L'ultima traccia di vita e di attività risale all'ottobre 2015, quando i moldavi erano alle porte, nel senso che sulla porta di legno dell'ingresso dalla Sp 1 resiste una locandina, appiccicata pure questa con lo scotch, che illustra la mostra fotografica di tale Alecu Renita, dal titolo "Moldova, elogio alla natura”. Seguono patrocini vari ed eventuali simili alle decorazioni di un generale e come queste totalmente inutili. Probabilmente una delle infinite propaggini di Expo, pagata dai contribuenti e visitata da parenti e amici di Alecu Renita. 
La porta mostra decine di buchi di puntine, resti di precedenti grida incollate alla meno peggio, nastro adesivo andato a male, mentre il portone di ferro dell'ingresso principale porta ancora impressi in negativo, come tristissime sindoni del tempo passato, le notizie delle mostre e perfino qualche traccia di immagine buona per i Ris. Lo scorso mese di maggio capitai lì per scattare qualche fotografia, e almeno allora il portone ferrigno mostrò un alito di vita: «Fate pena», c'era scritto su un anonimo foglietto color sabbia, ovviamente appiccicato con lo scotch, vero pilastro fondante della cultura italiana e collante di ogni nostra nefandezza. A quel tempo gli orari erano altri e non c'era la finesse della traduzione inglese: da martedì a domenica, dalle 10 alle 12,30 e dalle 14 alle 18. Era sabato, ma non si vedeva anima creata. 

Giro intorno al Chiostro e la desolazione è ancora maggiore, una solitaria colomba staziona sulla croce in cima al torrione, sul retro resti non ben identificati di un ufficio, scaffali pronti per la discarica abbandonati contro il muro. Silenzio e rabbia, al pensiero delle trecento persone che visitarono la mostra sulla Scapigliatura milanese, la sera dell'inaugurazione avvenuta ormai quindici anni fa, con il Barbapedana di Nanni Svampa a dare la nota di gaiezza e meraviglia. 
Infinita tristezza e nostalgia, al pensiero di Severino Gazzelloni e Alirio Diaz ospiti tra i molti delle leggendarie stagioni di concerti degli anni Settanta (organizzate assieme a splendide mostre dall'allora sindaco Oldrini), flauto (d'oro) e chitarra capaci di stregare il pubblico seduto nel porticato, con le rondini che come per magia tacevano appena la musica incominciava. 
«Hinn scapaa tucc», dice un abitante della grande corte, «ghin pü danée da babbà sa ved», ma oltre ai soldi, che ci sono sempre per i soliti noti, a mancare totalmente sono le idee e la capacità di gestire un bene pubblico, affidato come quasi sempre accade a orecchianti, amici di questo o quel politico, frequentatori di salotti e giuste inaugurazioni di negozi trendy, senza preparazione alcuna e ancor meno progetti validi. 
La decadenza ultima del Chiostro di Voltorre almeno ci risparmia il ridicolo provincialismo espresso fino all'estate dal sito internet (per fortuna scomparso come i suoi fondatori, perfetti sodali dei conoscitori per sentito dire del "Chiosco” di Voltorre dove probabilmente si spacciavano panini e cocacola), con i Friends of the Cloister (testuale) che promettevano «promozione e valorizzazione culturale e turistica del complesso monumentale e mostre di respiro internazionale». Come quella di Alecu Renita, inaugurata il 13 e chiusa una settimana dopo, ma ancora presente in effigie sulla porticina di legno come memento mori della cultura provinciale. 
In Paesi meno cialtroni del nostro, in cui anche un pezzo di muro Romano conta su una guida turistica e su dettagliati opuscoletti informativi, un bene come il Chiostro di Voltorre, a pochi metri dalla pista ciclabile e da uno dei punti panoramici più belli dell'intero lago di Varese, sarebbe fonte di lavoro e ricchezza, visitato quotidianamente e sede di ogni possibile iniziativa culturale, per non dire evento. 
Chissà come se la ride il Bigio Conconi dall'aldilà, il suo chiostrino è deserto, nessuno glielo tocca più, in passato qualche imbecille aveva dato ordine di distruggere i nidi delle rondini sotto il porticato perché sporcavano le pietre del camminamento, ma ora su queste pietre gli aedi dell'happy hour hanno versato olio, vino e chissà cos'altro, macchiandole di vergogna. Questa è l'Italia bellezza, che si vergogna dei propri beni nascondendoli alla vista per paura che il barbariccia iraniano ci tolga le commesse energetiche e una nuova grande mangiatoia per banche e politica, o li chiude alla visita in attesa dell'opening time friday saturday holidays… 
Ma ci faccia il piacere, ci faccia.

















Lasciate ogni speranza… ma di entrare

Un tempo c'era un torrente

Quel che rimane del vecchio lavatoio

Arte contemporanea

La curva della tristezza

Sbirciando dalla cancellata

La solitudine della colomba

Signori si chiude

Pronti per la discarica

Proviamo di venerdì...

Deserto per due

Una volta qui passeggiava Luigi Conconi

Porte chiuse anche in chiesa

Riprova sarai più fortunato

domenica 3 gennaio 2016

Il sabato andavamo in via Medaglie d'Oro

Il sabato andavamo in via Medaglie d'Oro


L'ultimo disco che acquistai un lontano sabato pomeriggio in via Medaglie d'Oro fu l'edizione Philips del "Flauto Magico” diretto da sir Colin Davis. Era il 27 aprile 1985 (ho sempre datato i miei acquisti a futura memoria) e da nemmeno un mese facevo parte della leggendaria redazione di “Airone”, la più bella rivista italiana di quegli anni, pubblicata da Giorgio Mondadori, sede a Milano 2, il che voleva dire treno metropolitana e pullman avanti  indré dalle sei del mattino alle dieci abbondanti di sera.
Ma mi sembrava di volare, e con l'idea del primo stipendio che sarebbe arrivato di lì a poco (900mila lire nette, oggi quasi un cifrone) mi portai avanti con Mozart, perché naturalmente il giorno in cui avessi trovato casa a Milano mi sarei comperato uno stereo e scelto una bella selezione di dischi, naturalmente in vinile perché trent'anni fa il cd muoveva i primi passi e ancora non convinceva del tutto gli audiofili.
In via Medaglie d'Oro c'era un piccolo paradiso per sognatori e specialisti, la Casa Del Disco, la signora Teresa si agitava frenetica dietro il bancone, non perdeva un'ordinazione, dava suggerimenti, rispondeva al telefono, tirava fuori i dischi dagli scatoloni degli ultimi arrivi, potevi chiederle qualsiasi cosa e lei ti rispondeva meglio di Wikipedia.
Abituato com'ero a incisioni storiche dei Furtwaengler, Walter, Mengelberg, lettore patologico di "Musica” e delle recensioni di Elvio Giudici, arricciavo un po' il naso al "Flauto magico” diretto da un inglese, ma la signora Teresa mi rassicurò: «Se non le piace lo può cambiare senza problema, però l'edizione ha vinto un Grand Prix du Disque, la ascolti».
Il cofanetto blu notte (in omaggio alla Regina..) è ancora nello scaffale della mia discoteca, Colin Davis non mi deluse, quello che l'inquilina della Casa Del Disco diceva era vangelo, dal jazz al pop, dal country al tango, dalla lirica alla disco. In quegli anni ero arrivato lì prima dal negozio Ricordi di corso Roma, a cui devo il mio primo Vivaldi comperato a sedici anni e il sorriso di una splendida ragazza che ne sapeva parecchio, e poi da via Indipendenza, sede del Discobolo di Pisani, dove avevo acquistato diversi lp con i soldi guadagnati come aiuto addetto stampa della Provincia, sostituto del vecchio Andrea Stinco ai consigli interminabili e alle riunioni di giunta, e con le 25 lire a riga della "Prealpina”, ovviamente recensioni di concerti in giro per il Varesotto.
La domenica andavo a Masnago in curva a tifare per il Varese di Fascetti, e lo speaker prima di annunciare le formazioni non mancava di ricordare «il Discobolo di Pisani» insieme ai «lampadari Frigo Nereo», così incominciai a frequentare il negozio di dischi, facendo impazzire il commesso con richieste tipo la "Musica funebre” di Henry Purcell o le incisioni pirata della Rococo di Sergiu Celibidache, allora vendute soltanto dal mitico Cometta di Lugano a prezzi da Bucherer di via Nassa. O dal vecchio Carù, seduto come un imperatore davanti a scaffali stracolmi di dischi, ma a Gallarate faticavo ad andare, anche se ero certo di trovare rarità tipo gli antelucani Cetra-Soria di lirica spessi come fondi di bottiglia.
Alla fine le facevo arrivare a qualcosa meno dal Setticlavio di Firenze, negozio raffinatissimo e ancora granducale, ma dai tempi dell'università curiosavo anche dalla signora Majno in via Fara a Milano, dove sapevo che Elvio Giudici si riforniva. Per me era una patente di nobiltà acquistare un disco lì, la Majno conosceva i direttori e i cantanti della Scala, aveva il negozio pieno di fotografie autografate, Abbado, Muti, Domingo, Freni, Ghiaurov, da lei passava Paolo Grassi, e poi adesso ero "milanese”, ci sarei potuto andare quasi quando volevo. Paola era gentilissima, mi aveva preso in simpatia, non capitava tutti i giorni un ventenne brufoloso che sapeva tutto di Arthur Nikisch o aveva registrato in cassetta  (mille lire tre, da Biotti in via Orrigoni) l'opera omnia di Beethoven alzandosi alle sei del mattino per beccare la Bagatella rara alla filodiffusione.
Ma a Varese non c'era che la Casa Del Disco e il suo reparto classica, con il sabato pomeriggio di pellegrinaggio e discussione, perché in piazza Podestà c'era più spazio, si ascoltava in cuffia, si leggevano i cataloghi e valutavano le offerte, capitava l'integrale dei Quartetti di Mozart con l'inarrivabile Quartetto Italiano a prezzo stracciato, qualche Odissey d'importazione, gli Angel dal vinile di qualità sopraffina (suonano ancora meravigliosamente) e poi nel giro di pochi giorni potevi avere quasi tutto ciò che desideravi. La signora Teresa mi procurò i rarissimi cd di tango di un'interminabile collana, senza l'ausilio di internet, Ibs e compagnia, le tesserine verdi (qui c'è riprodotta l'ultima, purtroppo incompleta) si riempivano di timbri e alla fine arrivava un cd in omaggio, una festa nella festa. I sacchetti di plastica da bianchi con scritta nera diventarono verdi rimpicciolendosi al formato compact disc, ma nel fondo qualche cassetto dovrei conservarne ancora qualcuno di quelli king size, dove il 33 giri scivolava comodamente scodinzolando per il corso fino a casa.
Finiti gli anni milanesi, chiuso Cometta, sparito il vinile, rimase il sabato alla Casa Del Disco, ma presto anche Gege e Teresa mollarono il colpo, ma la classica poteva ancora contare su Rita, poche parole e competenza sicura, anche se con l'avvento di ebay e Ibs le visite per forza si diradavano, complici i prezzi più bassi e la scelta infinita anche dei fuori catalogo.
Non molto tempo fa in piazza del Podestà ho acquistato l'integrale delle registrazioni berlinesi di Celibidache (a volte ritornano) e la paradisiaca esecuzione dell'Oratorio di Natale di Bach da parte dei Barocchisti diretti da Diego Fasolis. Ora pellegrinerò per l'ultima volta alla Casa Del Disco, anche solo per salire la scala che porta al reparto classica e gettare un'occhiata nei cassettoni (una volta lucchettati) dove c'era il bendiddio. Ormai sono fuori dal tempo, il negozio sopravviveva grazie alla musica dei giovani, agli ospiti e al passaparola, la classica era una nicchia ma pur sempre l'angolo dei sogni, dove in cuffia pregustavo l'ascolto che avrei fatto poi a casa, sull'impianto conosciuto a memoria e capace di portarmi, oggi come allora, in un mondo fantastico, popolato dai miei eroi musicali, che mi par di conoscere di persona e vedere al lavoro, chini sul pentagramma.
La chiusura di una libreria o di un negozio di dischi è una sconfitta per tutti, un ulteriore segno di imbarbarimento e di implosione sociale, perché nessun ascolto su spotify potrà ripagare quello in cuffia, in piedi davanti al lettore cd con il booklet da sfogliare e l'amico che ti dice «vai sulla traccia 3, senti l'Andante…». Alla Casa Del Disco si poteva.

MC