sabato 23 aprile 2016

Sul parlare di cultura a Varese

Sul parlare di cultura a Varese







Leggo oggi nel sito del quotidiano "La Provincia di Varese” l'editoriale a firma di Francesco Caielli relativo all'incontro dell'altra sera al Santuccio con i candidati sindaco. Premetto di non essere stato presente alla serata, quindi non sono in grado di commentare gli interventi dei cinque papabili, il livello della loro facondia e presenza mediatica, cosa oggi più importante e di molto rispetto ai contenuti politici e alla preparazione  amministrativa, ma posso dire la mia in merito alle considerazioni caielliane sulla cultura a Varese.
Il giornalista conclude il suo pezzo in questo modo: «In chiusura, una risposta a chi dalla platea ha urlato la sua rabbia perché non è stato toccato l’argomento cultura. Il tempo era poco, e abbiamo deciso di affrontare altri temi: sicurezza, famiglia, urbanistica, disabilità. La cultura, tematica che senza dubbio merita tutta l’attenzione di chi amministrerà Varese e che ci è molto cara, secondo noi viene un passo dopo queste cose».
Chissà perché, il tempo per parlare di cultura non c'è mai, questa parola incute terrore anche soltanto a sillabarla, la si fugge come i gatti neri e il virus Ebola, eppure è il fondamento di ogni società civile, la base su cui si appoggiano la sicurezza, la famiglia, l'urbanistica, la disabilità, e toh, anche lo sport, così caro al giornale varesino assieme agli altri temi trattati al Santuccio. 
Cultura deriva dal verbo latino còlere, che significa coltivare, avere cura, essere riguardosi verso qualcosa e qualcuno, e per coltivare occorre essere stanziali, risiedere in un preciso luogo, quindi avere radici e attaccamento al proprio territorio. Ma c'è di più: il termine discende dal participio futuro latino (non presente nell'italiano) colturus, un tempo che indica qualcosa che sta per accadere, che avverrà, quindi la costruzione di ciò che vorremmo diventasse realtà e, nel caso di Varese, una città meno ignorante e più partecipe. Una città nascitura, per rimanere tra le cose venture e auspicabili.
Oggi, tempo in cui si generalizza ogni concetto e ci si mantiene alla superficie delle cose, per cultura si intende l'insieme di una civiltà, un miscuglio di conoscenze o, per semplificare ancora, qualcosa patrimonio di pochi pedanti che cianciano di libri, musica, arte in circoli quasi carbonari, e abbaiano alla luna quando non se ne parla in pubblico. 
Eh no, caro Caielli, la cultura, specie in una città spolpata e inerte come la nostra, deve stare un passo avanti a ogni altra cosa, perché è da essa che nasce la tolleranza nei confronti della diversità, la corretta gestione urbanistica, l'armonia nelle famiglie, perché il sapere porta rispetto per l'altro, confronto e quindi crescita comune. Comodo cacciarla in cantina perché «non c'è tempo e ne parliamo la prossima volta», comodo restringerla, come si fa lavando il maglione di cashmere a 60 gradi, nei discorsi, nei giornali, nei dibattiti, trattandola alla stregua di un lusso un po' démodé, di cui si parla con un sorrisetto di sufficienza sulle labbra. 
Fa spavento che nessuno dei cinque sul palco abbia messo nel proprio programma la cultura come riscossa al decennale nulla della giunta Fontana, sindaco che secondo Caielli «dialetticamente si sarebbe mangiato tutti i candidati», probabilmente nel vendere fumo. 
Ma, come disse un Gran Citrullo ai tempi del governo Berlusconi, «carmina non dant panem», con le mostre, i concerti, la civiltà del vivere non si vincono appalti, asfaltano strade, costruiscono stadi, non ci sono torte da spartire ma soltanto conoscenza e rispetto reciproco. Come nelle partitelle all'oratorio il più impedito era messo in porta, così accade in Italia agli assessorati alla Cultura dove, per parafrasare il vecchio Longanesi, insistono per lo più «uomini buoni a nulla ma capaci di tutto». Fare “cultura” significa avere una preparazione culturale, avere visto e avere letto, aver sperimentato e aver ascoltato, tutte cose perdute per strada o al massimo appiccicate con il vinavil. 
Come ho già avuto modo di scrivere, Varese non avrà mai vocazione culturale, la sua è soltanto commerciale e para-sportiva, improntata a una solidarietà di facciata imposta dal business. I pochi uomini “di cultura” che ha avuto o arrivavano da fuori o se ne andavano presto, emarginati o annegati nel culturale blaterante di cui il nostro Paese abbonda. 
Nietzsche ai suoi bei tempi già osservava «il deserto che cresce» e oggi la sabbia ha accecato gran parte degli occhi del mondo, così ogni sputacchio colorato, ogni voce dissonante, ogni sagra del cotechino si spaccia per “evento” culturale e tutto ciò contribuisce sempre più a svilire il vero significato della parola, confinandola a  frivola giustificazione di ogni nefandezza. 
E condannandola a non trovare casa nei vari "Porta a porta” nazionali e locali, se non trasformata in caricatura sulle labbra delle solite combriccole create nei salotti, negli happy hour e nei locali trendy. Personaggi “di facciata”, che si fan belli parlando di mostre ed “eventi” (parola orrenda per esemplificare il nulla), sciure palmire arrivate dall'iperuranio che improvvisamente diventano esegeti del Parmigianino, notabili che cambiano schieramento come le camicie, cicalatori professionisti che svariano da destra a sinistra come Cuadrado nella Juventus. 
In conclusione, faccio mie alcune parole del filosofo e teologo russo Pavel Florenskij che non lasciano dubbi sulla sua visionaria sapienza: «Io che sono un uomo, non trovo motivo di tormentarmi in cerimonie cinesi che si spiegano come pure e semplici convenzioni e che non danno alcun contributo alla conoscenza. Io non ho né tempo né forza di studiarli, perché la vita non aspetta. La vita esige attenzione e sforzo: vivere una vita non è come passeggiare in un campo. Ecco, se si vuole fare un bilancio, io, uomo diciamo degli anni Quaranta del XX secolo, non voglio caricarmi del peso delle vostre controversie prive di azione, delle vostre incertezze e perfezionismi. Le vostre costruzioni saranno magnifiche, tanto magnifiche quanto un tempo era lʹetichetta presso il re Sole; ma a me, che cosa importa di questo, che cosa importa delle vostre finezze, e delle finezze di Versailles? La mia casa è piccola, la mia vita è breve, e la mia misura è quella dellʹuomo. Senza amarezza e senza ira, ubbidendo semplicemente alle esigenze della vita e della mia responsabilità verso la vita, io volto le spalle alla vita intesa come puro divertimento e vivo come ritengo giusto». 

Grazie a Massimo Angelini