sabato 19 dicembre 2020

LIBRI ABBANDONATI

Ci sono libri che hanno una voce, una voce vera, forte e chiara, una voce che chiama e a volte urla, invita o interroga. Sono libri che appaiono d'improvviso, nei cataloghi degli antiquari o su qualche bancarella, titoli sconosciuti o autori in incognito, copertine spesso banali o fin troppo ricercate, edizioni private, magari stampate in poche copie “per gli amici”. Libri ai quali ci si può affezionare per la vita, perché raccontano storie vere, laceranti, con la scrittura che fa da terapia del dolore all'autore o all'autrice, contribuendo ad accendere una fiammella di speranza per il domani. 
Non sapevo chi fosse Lydia Schwarz, nome adatto per il titolo di un film o di un noir, né conoscevo il perché avesse pubblicato un libro dalla copertina così elegante e stampato a Milano da un grande artigiano come Luigi Maestri. Un romanzo? Dei racconti? Un saggio? L'inserzione era vaga, ma il titolo mi catturò immediatamente, attirandomi come una calamita verso l'acquisto, pochi euro, nemmeno il prezzo della rilegatura: "Poltrona vuota alla Scala”.



Andrea Camilleri, nell'unico mio incontro con lui, mi disse: «Sono i libri che ci vengono a cercare, noi ci illudiamo del contrario». Il romanzo di Lydia Schwarz, perché di romanzo si tratta, arrivato per posta dopo qualche giorno, faceva di tutto per essere letto immediatamente: la carta di qualità leggermente ingiallita dagli anni -il libro è del 1966- la copertina ocra con la raffinata cornice nera che ingloba autrice, titolo, disegno e anno di stampa, le tavole interne con ingenui schizzi a china, si manifestavano con una voce potente, come se Lydia fosse lì a parlarmi.
Chi era Lydia? Ebrea, come potrebbe far supporre il cognome? Parente magari di Arturo Schwarz? Non risulta. Su Google niente di niente, che sia uno pseudonimo? Apro il volume. Prima sorpresa, c'è una dedica autografa: “Villareale "DACIA" agosto 1976. Con amicizia! Lydia Schwarz” Il mistero si infittisce, ormai Lydia è una di casa, conosco la sua grafia, limpida, ampia, volitiva. Tutto mi dice che questo sia il suo unico libro, la storia della sua vita e di chi ha amato con disperata furia, un uomo importante, ricco, con il quale ha condiviso un'esistenza esaltante ma angosciosa, fuori dal matrimonio ma legata indissolubilmente a lui più della moglie legittima. 
Il 23 aprile 1963 Virgilio Auselmi morì in circostanze non chiare, e Lydia stette due mesi rinchiusa nella sua stanza in una muta disperazione. Poi  trovò un quaderno intonso di Vittorio, il figlio avuto dall'amato, e piano piano si mise a scrivere quello che sarebbe diventato il romanzo più vero che abbia letto negli ultimi anni. 
La poltrona vuota alla Scala, naturalmente è quella in cui Virgilio sedeva accanto a lei nei giorni lieti, quando potevano vedersi tra un consiglio di amministrazione e gli infiniti viaggi di lavoro di lui, lontani dalle minacce della moglie e dagli ammonimenti della famiglia di lei, cattolicissima e avversa ai legami extraconiugali. 



Lydia nasce bene, la madre discende da una nobile e ricchissima famiglia veneta, il padre ha un'azienda, ma a 49 anni muore di crepacuore per il ventilato fallimento della ditta, lasciando la moglie sola e senza sostegno con nove figli. Virgilio è l'erede di un grossa fortuna, il padre Vittorio possiede a Padova una delle più importanti aziende metalmeccaniche d'Italia, che ha fondato nel 1906 e ingrandito negli anni. Il figlio è un genio della meccanica, destinato a succedergli e a fondare un nuovo stabilimento modello, sul modello dell'utopia olivettiana. Lui e Lydia si conoscono durante una gita in automobile, sono fatti l'uno per l'altra e lo capiscono subito, si sarebbero amati fino alla morte. 
Lui ha sposato controvoglia una donna che lo aveva sedotto, lei non ha avuto altri amori e gli si è consacrata, allontanandosi per dieci anni, con una pena infinita, per lavorare a Roma dopo che la sua famiglia aveva scoperto il loro legame. Lydia torna a Padova con una malattia rara e devastante, ma con un coraggio sovrumano si sottopone e due durissimi interventi chirurgici e guarisce, grazie all'amore ritrovato di Virgilio, ma non a quello della madre e dei fratelli. 
Si sposano per finta scambiandosi gli anelli, lei gli dona la sua verginità lui la sua vita, perché da quel momento la loro esistenza è fatta di case affittate e lasciate, di fughe verso brevi vacanze al mare, di ricatti e minacce da parte della moglie legittima, di problemi anche gravi dell'azienda da risolvere, di continui viaggi di lavoro in ogni parte del mondo. 
Lydia aspetta, e partorisce Vittorio, a cui Virgilio non può dare il suo nome perché la moglie gli rifiuta la separazione, le lettere di lui, pubblicate alla fine del libro in facsimile, precedute sempre da "W Lyvirvit”, lettere iniziali dei tre nomi della loro piccola famiglia, traboccano di passione ma anche del timore che possa accadere qualcosa di irreparabile. 


Che puntualmente accade. Virgilio si ammala, a poco più di 50 anni, diabete e grave depressione da super lavoro, insonnia e incubi, i nervi cedono, invecchia precocemente e dopo diverse crisi e svenimenti improvvisi, viene ricoverato a forza in una clinica per la cura del sonno. Quando la salute sembra ritornare, la crisi finale, il cuore cede di schianto, la mattina stessa in cui Virgilio sarebbe dovuto uscire dalla clinica e rivedere finalmente Lydia. Così, almeno, è quello che le fanno credere, però ci sono altre ipotesi sulla morte, che sarebbe avvenuta nella villa di famiglia di lui, o addirittura nel bagno della clinica. Lydia non conoscerà mai la verità, né potrà seguire i funerali dell'adorato compagno, da amante nascosta e detestata. 
La lettura mi ha tenuto avvinto per un giorno e mezzo, la scrittura è sempre viva e pulsante, priva di retorica e lucida anche nei momenti di strazio, Lydia è una donna forte, sostenuta da un amore immenso, che vuole gridare a tutti e lasciare nel suo testamento letterario. Una storia d'amore come non ne esistono più, vissuta tra il dopoguerra e il boom economico, tra i pregiudizi e le censure del Veneto ultra cattolico, tratteggiati poi da Pietro Germi in "Signore & signori”, le delazioni e i contrasti famigliari. 
«Raggiungeremo la meta finale anche se sul nostro cammino troveremo ostacoli su ostacoli. Poiché tu sei mia da 18 anni e sarai mia per l'eternità. È venuto poi il frutto del nostro amore e questo ha congiunto l'anellino. Ora verrà il resto a costo della mia vita stessa se ce ne fosse bisogno», scriveva Vir, il diminutivo con cui Lydia chiamava il suo uomo, il 16 maggio 1954. Fu tristemente di parola. 
Ho scoperto chi era Lydia Schwarz e mi sarebbe piaciuto conoscerla, parlare a lungo con lei per guardarla negli occhi e prendere un poco della sua forza, del suo coraggio e della sua abnegazione. E, alla fine, stringerla in un abbraccio. 

p.s. 
Ho ritrovato il nome dell'azienda di Virgilio (nella realtà Virginio) e il suo vero cognome, trasparente sotto quello usato da Lydia nel libro, e forse il figlio Vittorio ancora vive e magari si occupa degli affari di famiglia. Ma di Lydia Schwarz non vi è traccia alcuna, è volata via, con il suo nome misterioso, affascinante come lei, donna bionda e snella, che ha saputo con le parole tenere viva per sempre la leggenda del suo amore. 

p.p.s. 
Su ebay c'è qualche copia del libro. In questi tempi di algida socialità, qualche lacrima di commozione può aiutare a ritornare umani. 


martedì 14 luglio 2020

IL FIGLIO NATURALE DELLA CASERMA GARIBALDI

Il cittadino medio, automunito, mascherato (ancora per poco) e dotato di petroliere di pazienza, per raggiungere mettiamo Casbeno da Giubiano, deve farsi tutto il centro, prendere viale XXV Aprile e sperare nella provvidenza, che non ci sia qualche cantiere fantasma aperto e mollato lì dopo due colpi di ruspa. Nonostante, non si sa chi e non si sa perché, qualcuno abbia scritto che la proprietà, il comune, il governo, l'Unione Europea o qualche altro burosauro avrebbe già “messo in sicurezza” il rudere di via Gasparotto, questo è ancora lì bel bello, con le sue strisce bianche e rosse sventolanti a segnalare pericolo di caduta e il meraviglioso cartello -l'Italia è il paese della presa per il culo spontanea- di divieto di sosta appiccicato al muro pencolante. I metri di strada chiusi al traffico saranno sì e no cinquanta, sufficienti a far guadagnare l'inferno a centinaia di padri e madri di famiglia timorati di Dio, diventati bestemmiatori seriali già alla svolta di largo Flaiano. 


Probabilmente anche il solerte cittadino dall'occhio d'aquila che ha visto le crepe del rudere allargarsi come le acque del mar Rosso segnalandole “a chi di dovere”, si starà dando martellate sui coglioni come Tafazzi, ché magari l'altro ieri per un vuoto di memoria si è trovato lì con la macchina per andare alla Cartabbia e ha dovuto fare dietrofront, allungando almeno fino all'Esselunga di viale Borri per poter invertire la marcia e attraversare canonicamente il centro, percorrere via XXV Aprile, fare la rotonda della Coop, imboccare viale Europa e arrivare finalmente all'incrocio dove termina la via Gasparotto incerottata. Chilometri e gas di scarico in più, pressione sanguigna in rialzo, usura mezzo, moglie amante amica che minaccia di lasciarti, semafori di largo Flaiano dai tempi biblici, fai a tempo a leggere tutto Ken Follett e se hai un buon autoradio ascoltarti anche la Nona di Mahler. Sempre che il semaforo tu riesca a vederlo. Quello per esempio alla sommità della rampetta dalla parte sana di via Gasparotto, è ingentilito da una splendida fioritura biancorosa, una cosa che fa pensare ai concorsi per la miglior stazione fiorita che si tenevano ai tempi del Duce. 


Se hai la ventura di arrivare da via Nino Bixio, mentre sei in coda al rosso puoi ammirare un pezzo di ponte ferroviario crollato, con calcinacci guarniti di bottiglie di birra e lattine. Strano, anche lì  potrebbe venir giù tutto da un momento all'altro, ma nessuno dice di dover mettere in sicurezza qualcosa, il pedone è meno nobile dell'automobilista, se precipita dalla spalletta terremotata quasi non ci si accorge nemmeno. Se poi per sventura cade sul tetto di un treno in transito, chi lo trova più?


Tutto per 50 metri di strada chiusa da giorni in attesa che qualcuno “metta in sicurezza” il rudere, gergo burosaurico che include, si suppone, delle belle iniezioni di cemento vitaminico per tenerlo su, una rinfrescata alle eclair, ora graffitate come dio comanda, la potatura delle piante limitrofe o magari chissà, anche un bel boschetto verticale, non sia mai che spulciando qualche documento nascosto non si scopra che il manufatto è di pregio, forse disegnato da Gio' Ponti. Intanto il tempo passa, le ferie incombono, non si vedono ruspe all'orizzonte e nemmeno uno straccio di martello pneumatico, il figlio naturale della Caserma Garibaldi alla fine crollerà da solo, prima che qualche politico pensi di ristrutturarlo magari per farci il teatro. Si potrebbero raccoglierne i calcinacci e stoccarli come i rami del Piantone per distribuirli poi ai cacciatori di souvenir, indire un bel concorso su cosa costruire sulle sue ceneri, un bed and breakfast vista binari, un'edicola della Madonna,  la stazione della funicolare, o il solito mini parcheggio che lì non sbagli mai. Naturalmente tutte strisce blu, non si fanno sconti, evviva l'ecologia!




sabato 4 luglio 2020

VARESE, CITTA' IN CANCRENA

Crolla, non crolla, avanza la crepa, si ferma. Si fa serpentina, sale scende, si apre si chiude, si dirama, fiorisce. Son due son tre, una ragnatela, il muro si sgretola, aìta aìta tutto vien giù, c'è il rischio di un'altra Albizzate. Ci vorrebbe la penna di Palazzeschi per descrivere la cancrena che sta divorando Varese, un morbo che striscia subdolo e colpisce alla cieca, i muri e i cervelli già duramente provati dal virus. 
Un rudere in via Gasparotto tiene in scacco la città, la colpa è tua no è tua, dovevi acquistarlo no dovevi metterlo tu in sicurezza, il balletto tra comune e privato è degno del Bolshoi, da un lato il proprietario che dice di aver la parola per l'acquisto, dall'altra i burosauri di via Sacco che tutto paralizzano come le Gorgoni, incapaci di prendere la minima decisione non si dice presto con fuoco ma almeno con un andante mosso. 

Il risultato è l'ennesima lite da asilo mariuccia, con la gente imbufalita, le code, il caldo, le mascherine, il Covid che non ritorna anzi sì, le strade chiuse e i cantieri aperti ma fermi, i progetti faraonici a scopo elettorale, i milioni che non ci sono ma di colpo appaiono a dare del dilettante al mago Merlino. 
Agli inizi del '900, Giovanni Bagaini e i suoi amici si misero a un tavolo di caffè, forse il Garibaldi, e decisero di dare a Varese una allure quantomeno nazionale, con grandi alberghi, rete tranviaria, funicolari, ippodromo e teatri. Detto fatto, tre anni e gli alberghi erano in piedi, poco più avanti ecco i tram a coprire il nord della provincia, fino allo sciagurato dopoguerra del cemento e della demenza amministrativa, del trionfo della gomma e della benzina a scapito della rotaia e del viaggiare lento. 
Esisteva, in quel tempo lontano, il sano grano di follia nelle teste dei notabili della città, la voglia di rischiare, di fare per il bene della comunità e non delle proprie tasche, o meglio della propria immagine, la parola era una e non centomila, il fumo era quello dei sigari e non delle promesse e delle fotografie nella prima pagina di cronaca con il sorriso e il proclama lanciato ai quattro venti. 
Si faceva, stop. 
Allora in via Gasparotto avrebbero mandato una gru con la palla d'acciaio e in mezz'ora il rudere sarebbe stato polvere e calcinacci, niente mandrie di burosauri al pascolo, colpa mia colpa tua brutto cattivo, mesi di impasse e di crepe ballerine monitorate dai passanti e non dai tecnici forse fuori stanza, alla macchinetta del caffè o in qualche riunione a parlare degli schemi di Sarri.
Ormai i cantieri varesini non son più buoni nemmeno per i pensionati osservanti, che preferiscono i giardinetti o una briscola al centro commerciale: una demolizioncina qui, un'asfaltatina là, poi tutto si ferma per un mese senza un perché. Son finiti i soldi? Li han già mangiati tutti? 
Un giorno ci sono gli escavatori alla stazione, il giorno dopo paralisi, forse han terminato il gasolio, forse avevano la cena sociale, uno scavetto, un'edicola rasa al suolo e stop, tutto rimane artisticamente sospeso, detriti e tubi contorti in bella vista, forse è un'installazione di Cattelan e non lo sappiamo. 
Certo ai burosauri una vena di sadismo cromatico non manca: ai passanti non garba l'arancione della barriera di plastica davanti al campanile del Bernascone? Mettiamola verde, così meglio si intona con le erbacce che crescono intorno e il vetro delle bottiglie di birra scaraventate alla sanfasò (sempre Cattelan?), gli ambientalisti son contenti e l'impatto visivo è meno drammatico, ma il campanile ha da crollà, non ci son santi, neanche Vittore, prima o poi verrà giù, ma intanto parliamone, indiciamo riunioni e dibattiti, cerchiamo i soldi, diciamo messe propiziatorie. Organizziamo una seduta spiritica, chiamiamo il feldmaresciallo Urban, che forse con qualche altra cannonata lo tira giù dalle spese e amen, se no qui si fa lunga e un calcinaccio alla volta hai voglia. 
Un'aura di mistero aleggia poi intorno alla voragine di piazzale Kennedy. I fondi si sono sbloccati? Roma che dice? Non si sa. Già avere una voragine in città non è mica da tutti, di solito son fenomeni carsici o buchi da terremoto, qui ce n'è una  naturale, bella grossa e ormai vintage, e nel frattempo sia mai che messa bene in sicurezza e con cartelli esplicativi e audio guide diventi un micro polo turistico, poi si può mettere in giro la voce che nelle notti di luna escono fuori i nani di Biancaneve con picconi e secchi e il gioco è fatto, il bilancio ripianato. Magari alla lunga la si potrebbe collegare al Bűs del Remeron del Campo dei Fiori, in un coast to coast magari con i vagoncini Decauville che darebbero quel tono d'antan tanto amato dai radical chic alla Vareselandoftourism. 
Ma la politica non si cura delle voragini, tira dritto e promette, con quali soldi non si sa, ma intanto le parole schioccano e sistemano largo Flaiano e la “casa degli spettri” angolo via Gradisca che davvero quella lì tra un po' viene giù senza dir niente a nessuno con dentro qualche ospite indesiderato, e perfino il ponte sulla ferrovia in via Nino Bixio, in lista d'attesa e di crollo visto come stanno i suoi simili in Italia che al primo cicloncino rendono l'anima a dio. Nel frattempo magari si potrebbe impacchettare il ponte alla Christo con un bel plasticone tipo Caserma Garibaldi con l'effigie di quello di Brooklyn, così il nostro si tiene su di morale e non casca, una botta di autostima sai mai, ha già le spallette reumatiche vista l'età. 
Non me ne voglia Morandini, che ha tutto il diritto di progettare strade bianche e nere, a righe a scacchi a triangoli isosceli, romboidali e trapezoidali, e davanti al suo museo vorrebbe pulizia e ordine, ma il rendering -per gli indigeni la generazione di una scena tridimensionale al computer- della ipotetica via Cairo, con gli alberi sforbiciati a parallelepipedo e la solitudine dei lampioni, la fa somigliare al corridoio di una clinica della Svizzera tedesca, di quelle della buona morte. Di fronte al progetto che dovrebbe cambiar volto alla strada, le piazze degli architetti razionalisti sembrano gli svolazzi di Gaudì sulla Sagrada Familia.


Con ottocentomila euro rifai l'asfaltatura delle strade fino a Parigi,  magari un pezzetto di funicolare e puoi seminare e trebbiare il grano al “Franco Ossola”, ma nelle scatole cinesi del comune i soldi appaiono e scompaiono come d'incanto, un giorno ci sono e il giorno dopo no, per alcuni sì per altri no, ciò che persiste è la certezza del nulla, con la città in cancrena, abbrutita e orfana d'identità, sporca e anonima, ma con la certezza di un grande futuro dietro le spalle, promesso da molte giunte a questa parte. 
Intanto godiamoci la coda sotto il sole al limitare di via Gasparotto e mettiamoci la mascherina in pace, che qui la cosa durerà un bel po', già qualche centinaio di metri più avanti il ponte ferroviario tempo fa aveva scricchiolato, coi temporali i vecchi mattoni magari si spaventano di nuovo e vanno rassicurati con un bel cartello strada interrotta. Se tirano giù il vecchio garage poi ci sono da rimuover le macerie e chi lo fa? Lo fai tu lo faccio io, tocca a te no a te, manca il documento manca la firma il funzionario è assente, si va per avvocati, ci sono le ferie in agosto non c'è in giro un cane, tribunale chiuso, giudice trasferito, magari l'abbattimento ha provocato crepe nella casa limitrofa che chissà di chi è. Arrivano le Belle Arti mettono tutto sotto sequestro e lì son cavoli amari. Per anni. 
Per le giunte da avanspettacolo è pronto il nuovo Politeama, finora però di rendering non se ne sono visti, forse la bruttezza estrema del manufatto ne rende complicatissima la miglioria anche solo virtuale, ma se cade il governo della città e sale l'opposizione il cinema rimane tale, finché crepa non lo consumi, perché non sia mai che i nuovi condividano un palcoscenico con i vecchi, vuoi magari per un vago interesse nei confronti della città e dei suoi esausti contribuenti. 
Già ci son questioni per il rinnovo di piazzale Kennedy, a prescindere dai voti, tanto per litigare, l'art pour l'art, così i promessi grand boulevard della nuova Varese rimarranno strettoie, il Masterplan sarà carta straccia e Giubiano e Belforte non somiglieranno a Dubai. 
Vuoi la piazza nuova senza automobili? E io ti faccio un parcheggio. Ti piace il sottopasso con la street art? Meglio un parchetto con neve artificiale e pista di snowboard. Nel frattempo fermi tutti, deciderà il sindaco prossimo venturo con la sua squadra di sempiterni burosauri. A confronto, i letargici caposezione Altamura e ragionier Terenzi della commedia di Silvano Ambrogi, somigliano alle marionette di Kim Jong-un, rapide come automi e programmate per uccidere ogni cosa che non sia timbro o carta bollata.



mercoledì 3 giugno 2020

Ciao Scoiattolo, ci hai riempito la vita

Da subito è stato Scoiattolo, nonostante fosse un gatto e addirittura femmina. Un po' per la maculatura del pelo, rossiccia come quella del folletto dei boschi, un po' per la velocità davvero scoiattolesca con cui si arrampicava sugli alberi. Arrivò un giorno del 2003, minuscola e già decisa, una cacciatrice solitaria, una capace di stare appiccicata al tronco di un agrifoglio a guatare il nido dei merli, pronta a saccheggiarlo senza pietà. 
In casa c'era già la Cipirissa, nera e più compassata, a lei piacevano le lucertole e ogni cosa che avesse forma serpentina, dai pezzetti di corda alle stringhe. Le riduceva a brandelli, in un balletto diavolesco fatto di balzi e sbuffi, corsette e morsicate. Prese subito Scoiattolo sotto la sua ala, erano grandi lavate di pelo, leccate sulla testa e morsichini, le due giocavano insieme, la piccola cresceva e si trasformava in serial killer, usciva dal suo territorio abituale spingendosi anche molto lontano, facendo diventare matta mia mamma che la inseguiva sulla strada per il cimitero. 
Un giorno Scoiattolo arrivò in giardino da chissà dove, con una fagianella viva in bocca. Era quasi più grande di lei, riuscii a sottrargliela, la micia era stremata e si sdraiò lunga e distesa sul prato, respirando come i cani a bocca aperta. Il campionario delle specie cacciate era impressionante, cince more, cinciarelle e cinciallegre, merli, piccioni, capinere, un regolo, uno scricciolo, pettirossi vari e perfino un ghiro, di cui rimase la coda, agganciata a un rametto di ortensia. 




I gatti si affezionano alla singola persona, e Scoiattolo scelse mio papà, diventando l'amica del cuore. Lo seguiva ovunque, a letto, in bagno, in cucina, vedeva la televisione con lui sul bracciolo della poltrona, e se io mi sedevo sull'altra, arrivava subito a rivendicare il suo territorio, tentando in tutti i modi di farmi alzare. Fino a tre anni fa non aveva mai miagolato, se non in casi particolari, dal veterinario oppure quando incontrava qualche gatto vagabondo in giardino, altrimenti silenzio, poche fusa in sordina e quasi nessun salamelecco, cosa che le gatte di solito fanno a profusione. Diventò sorda e incominciò a farsi sentire, con una voce forte e un po' roca. Probabilmente pensava -perché i gatti riflettono molto- adesso che non ci sento se mi chiamano non posso rispondere, così miagolo forte e sanno che sto arrivando. 
Da giovane Scoiattolo voleva stare fuori fino a tardi, e mia mamma non se ne capacitava e poi nemmeno mio padre, così erano richiami dal balcone, avanti e indietro dal giardino per cercare di convincere la tiratardi a tornare in casa, con esche prelibate e movimenti di croccantini nel sacchetto. Quando riteneva di doversi ritirare, saliva le scale lentamente, sapendo di aver fatto la marachella, ma una sera non ci fu verso, scappava nel giardino di fronte e passò la notte fuori, con mia madre che tentò fino all'una di convincerla. Il mattino, dopo la colazione con papà, Scoiattolo veniva da me, al piano di sotto, sgranocchiava qualche croccantino e poi si faceva fare i grattini sulla testa, sempre con qualche mao di soddisfazione, prima di scendere in giardino e fare il suo solito giro. 
Negli ultimi anni la simbiosi con papà era diventata totale, non lo lasciava un attimo e anzi prevedeva ogni sua mossa. Non appena papà spegneva il televisore, lo Scoiattolo scendeva dalla poltrona e lo precedeva prima in bagno e poi in camera da letto, e al mattino si alzava con lui, lanciando un sacco di mao profondi e sistemandosi in cucina per la colazione. Fino a ieri.



A gennaio scoprimmo che la micia aveva un sarcoma, andava per i 17 anni, un'età veneranda, ma a parte i reni malmessi, era ancora in buona forma, in grado di scacciare dal giardino la Nerina Maramao, sua nemica acerrima. La diagnosi purtroppo non lasciava speranze, il tumore si sarebbe ingrandito poco a poco e la pelle ulcerata fino ad aprirsi. Tutto è precipitato due mesi fa, in piena emergenza per il dannato virus. La prima piaga, la visita dal veterinario, in uno scenario post atomico, le medicazioni quotidiane per far sì che la pelle non esplodesse. 
Scoiattolo aveva capito che non ce ne sarebbe stato per molto, ma con dignità e caparbietà tutta felina, ha fatto la sua vita fino all'ultimo. Aveva smesso di mangiare i suoi croccantini speciali per i reni, cercava acqua in ogni angolo, ma teneva duro, accoccolandosi ancora vicino a papà sulla poltrona, lanciando i suoi mao e facendo il giretto in giardino, salendo poi a fatica le scale. Fino a ieri.
Stamattina papà non l'ha vista in cucina ad aspettarlo, Scoiattolo era  sulla poltrona, dormiva un sonno di morte, ma ancora lo aveva salutato con uno dei suoi mao particolari, riservati a lui. Se ne è andata nel pomeriggio, la nostra micia, con la dignità che hanno i gatti davanti alla morte, senza “dare fastidio”, e lasciandoci soli, in lacrime, e solo ora comprendo quanto di lei c'era ogni giorno qui in casa, il grande spazio emotivo che occupava, riempito dai suoi mao sonori, dal suo carattere fiero, dalla sua voglia di vivere fino in fondo. Non è vero che ai gatti manca la parola, lei ce l'aveva, "parlava”, raccontava la sua giornata quando saliva dal giardino, e ci leggeva negli occhi. 
Ciao Scoiattolo, ci hai riempito la vita, hai perso la tua, ma la nostra è cambiata per sempre.