sabato 31 dicembre 2016

I trent'anni di Piero Chiara

I trent'anni di Piero Chiara

Si è scomodato perfino "Il venerdì di Repubblica” per ricordare i trent'anni dalla scomparsa di Piero Chiara, per farci accorgere  una volta di più dell'eccellenza del suo raccontare, unico e irripetibile perché identico nella parola e nella scrittura. Il genovese Luciano Caprile, critico d'arte amico di Baj, che firma l'articolo, Chiara l'ha conosciuto bene e ricorda il gelo che li accolse all'ingresso del caffè Socrate di piazza Monte Grappa, con i benpensanti varesini “scandolezzati” dai ritratti impietosi della borghesia locale che il luinese dipingeva a larghe e ironiche pennellate. 
«Ostile freddezza», ricorda Caprile, caratteristica di una città che nasconde la testa sotto la sabbia, allora come oggi, culturalmente inesistente, che Chiara non riconoscerebbe più, perché sono spariti completamente i “matti”, gli originali, i “bei cornuti d'antan” e tutti quei personaggi bislacchi ma ricolmi di strane passioni che lo scrittore adorava e metteva nelle sue storie come si fa con un condimento prezioso custodito tra i segreti dello chef.

Lo scrittore in un ritratto di Guttuso

«Ora quel mondo non c'è più, ma non c'è neppure un altro Piero Chiara in grado di evocarlo con pari arguzia e con pari sensibilità», chiosa Caprile. 
Dieci anni fa scrivevo (tanto) per “La Provincia di Varese”, la pagina della cultura si faceva e bene, così pensai di dedicare una doppia ai vent'anni dalla scomparsa di Chiara, intervistando chi lo conobbe e ammirò in vita. Mi colpì la testimonianza di Cristina Mondadori, ultima figlia di Arnoldo ancora in vita, medico cardiologo e psicoterapeuta infantile, madre di Luca Formenton oggi a capo de “Il Saggiatore”. La signora ricordava benissimo Piero Chiara ospite dei Mondadori nelle ville di Meina e Portofino, trattato da papà Arnoldo come uno di famiglia.
«Ho un’immagine vivissima della festa che mio papà gli organizzò per il suo settantesimo compleanno, con la torta sormontata dalle copertine de “Il piatto piange” e “Viva Migliavacca”. Piero Chiara era una persona arguta e disponibile, ma lo stesso era la moglie Mimma, a lui complementare, che mi colpì parecchio. Faceva continuamente battute, era davvero simpatica», ricordava l’animatrice della Fondazione “Benedetta d’Intino” di Milano per il disagio infantile.
«Quelli erano gli ultimi anni straordinari per la nostra casa editrice, mio padre Arnoldo non aveva altri amici se non i suoi autori, che lo circondavano di continuo. Chiara era molto amato da lui, davvero una persona di casa».

Chiara e la moglie Mimma

Nel 1986, quando Chiara morì, la notte del 31 dicembre, il suo mondo stava scomparendo, incominciava una mutazione destinata a sconvolgere il nostro modo di vivere, non più centrato sul ritmo della natura e del nostro corpo, ma su quello delle macchine, del profitto sconsiderato e della distruzione consapevole della natura per produrre il superfluo. Le storie di Piero erano frutto di un profondo intuito psicologico, di una straordinaria capacità di osservazione, ma «le monete d'oro» che diceva di trovare nel suo campo segreto gliele forniva l'umanità di allora, con i suoi dolori e la sua disperazione, ma anche con focose passioni, indomita volontà e sana follia, la voglia di lasciare indietro la miseria e la guerra, il gusto per il peccato palese o nascosto, il bisbiglio nelle strade di paese, la bellezza a volte inconsapevole delle ragazze.
Di tutto questo Chiara si nutriva in maniera bulimica, digeriva e metabolizzava per poi distillare il verbo in una prosa tra le più nitide del '900, figlia certo dei suoi racconti orali, ma limata all'inverosimile, “messa in pulito” per rimanere tra i testamenti più genuini della nostra “way of life” prima della catastrofe tecnologica, del governo delle banche e degli affari che tutto livella verso il basso, spazzando via tradizioni e abitudini, in una parola “la cultura dell'uomo”.
Un altro ricordo di quelle pagine del 2006. Arriva da Luino e riguarda l'amico d'infanzia di Pierino, Vincenzino Ferrario, allora 93enne, compagno di scuola al collegio di Arona, pittore e figlio di un commerciante di vini. 
«Piero era più che vivace, un birbante. Studiava ogni situazione già da bambino, poi colpiva, spesso coinvolgendomi nelle sue imprese. Ricordo uno scherzo fatto a un amico di suo padre, che avrebbe voluto diventare maître d’hotel. Chiara comperò un cappelluccio con la visiera e nascose nella fodera un preservativo pieno di pipì, che scoppiò in testa allo sciagurato. Noi però eravamo già lontano», ci disse allora.
Uno scherzo come questo oggi mobiliterebbe psicologi, assistenti sociali, la stampa tutta, televisione e social network, Crepet e Andreoli, forse anche i Ris, mentre un tempo ci si rideva sopra e tutto passava in pochi attimi, perché la vita scorreva più semplice e gli uomini si riconoscevano per strada.

Chiara all'imbarcadero di Luino


Se Piero camminasse per il centro di Varese potrebbe ancora sedersi da Zamberletti ma non saprebbe più dove acquistare i suoi Borsalino, visto che l'ultimo cappellaio ha lasciato il posto al solito mutandaro. Niente spesa da Valenzasca, niente biliardo al Socrate o chemin-de-fer al Pini, le librerie sono scomparse quasi tutte, forse un salto dall'amico Canesi anche lui ritirato sull'Aventino,  per vendergli i libri che gli mandavano a vagonate perché li recensisse, nessuno lo riconoscerebbe per strada perché i letterati vivono soltanto nelle loro pagine per i pochi che ormai li ricordano. 
Canesi mi disse una volta: «Chiara arrivò un giorno di primavera. Avevo appena aperto il mio negozio in città, arrivavo da Pavia dove la mia libreria era a due passi dall'università. Mi raccomandò: “Canesi sai cosa devi fare qui a Varese? Vai tutti i giorni in banca, anche se non devi fare niente. La gente ti vede e dice: “quel lì el g'ha i danée!”».
«Piero era uno straordinario osservatore, possedeva un gran senso dell’umorismo dietro quella sua maschera seria, a volte dura, che celava una insolita sensibilità per la gente. I maligni dicevano che avesse in un occhio il segno del dollaro e nell’altro il sesso femminile, soprattutto negli ultimi tempi, quando il successo dei suoi libri era notevole. Mi diceva: “Ti vedo ti vedo, sei tu il Vanghetta”. Erano gli anni Settanta e Piero Chiara era assiduo alla mia casa di Domo. Lavorava alla sceneggiatura per un film tratto da “Il pretore di Cuvio”, e mi immaginava nella parte del protagonista, ma soldi nisba, la Rizzoli era in crisi e non se ne fece nulla», mi raccontò Nanni Svampa, sempre per le famose pagine del 2006.
E Teo Teocoli: ««Girai “Il balordo” nel 1978, a fianco di Tino Buazzelli, e la regia era di Pino Passalacqua. Ero giovane e inesperto e ricordo che Tino e Piero Chiara mi aiutavano a ripassare il copione dicendomi di improvvisare e metterci parole mie. Ricordo un episodio curioso sul set: Chiara si aggirava tra attori e operatori e a un certo punto gli dissero di levarsi di torno perché dovevano girare la scena. Lui si scostò dicendo: “Veramente io sarei l’autore dei testi”. Oggi non c'è più un narratore che abbia nel raccontare la sua sensualità».
Poi Roberto Gervaso, che ripubblico integralmente per la vivezza  e precisione del suo ricordo: «La mia conoscenza con Chiara data la fine degli anni Sessanta. Me lo presentarono i Bellora a Varese, mi era noto attraverso i suoi scritti che già amavo. Mi fece l’impressione di un uomo brillante, spiritoso e divertente, pieno di aneddoti da raccontare. Lo rividi poi nella vecchia sede della Mondadori, in Bianca di Savoia a Milano, quando Domenico Porzio ne era il capufficio stampa. Allora stavo per sposarmi e lui mi colpì con una frase: “Il matrimonio si può sempre temperare con l’adulterio”.
Chiara dava il meglio di sé a cena, raccontava e raccontava, aveva come Guido Piovene un “terzo occhio” e vedeva ciò che gli altri non coglievano, il tic, la mania, il vizio nascosto delle persone. Gli piaceva atteggiarsi, era un grande causeur, dalla conversazione sempre frizzante.
Piero mi dava consigli erotici raccomandandomi: “Se vuoi conoscere le donne, conoscine bene una”, lui amava le femmine, era uno “sparviero d’alcova”. Venivo spesso a Varese a trovarlo, ci univa una concezione scettica e disincantata della vita. Durante il viaggio in treno mi costruivo delle storie che poi gli raccontavo, come faceva lui con me: alla fine le raccontavamo così bene che si era convinti d’averle realmente vissute.
Chiara si era talmente immedesimato in Casanova che attribuiva certe situazioni e atmosfere a se stesso. Era il piccolo Casanova di Luino, ricordo che quando gli scrivevo mi firmavo “il tuo apprendista libertino”. Piero non era avaro, era avarissimo, con lui non si aveva mai la sensazione di perdere tempo, era ligio al motto: “Il tempo è denaro”.
Aveva tariffe particolari per la lettura dei molti manoscritti che gli inviavano e quando diventò segretario provinciale del Partito liberale era felice, perché finalmente aveva un ufficio e soprattutto un telefono, con cui fare chiamate interurbane a spese altrui. Sognava la morte “eroica”, sul campo, o meglio nel letto di qualche femmina, come l’Emerenziano Paronzini della “Spartizione”».

Piero Chiara nel suo studio

Non era uno stinco di santo Chiara, ma un artista, anche nella vita di ogni giorno. E come tale con tutti i difetti di chi vive rubando emozioni e caratteri e li trasforma in seduzioni di carta, colpendo con le frecce dell'ironia e del grottesco, lasciando al lettore il giudizio finale su fatti e persone, dopo averli palesati fin nelle pieghe più nascoste. Di cosa potrebbe scrivere oggi Chiara? Di un'umanità persa dietro l'ansia del guadagno, sterile, con i sentimenti ibernati e la paura di manifestarli, sciatta e ignorante,  aliena da curiosità intellettuali e passioni, prigioniera delle macchine e sfinita dalla rincorsa all'inutile, priva di identità e di storia, vessata dalle tasse e dalle scadenze, governata da malviventi e consorterie del malaffare. 
Gli interesserebbe? Di certo no, forse si dedicherebbe alle biografie, rinnovando i suoi studi su Casanova, Baffo o l'amatodiato d'Annunzio, o forse cercherebbe nell'alto Varesotto o in una valle ticinese qualche dinosauro parte dell'umanità di allora,   con cui fare una partita a carte dopo averlo studiato per bene e immaginato in una storia. 
Oppure farebbe come suo padre, il vegliardo Eugenio, morto a 96 anni e magistralmente raccontato in “Mi fo coragio da me”: «Mio padre fumava con gusto il suo “toscano” e guardava il lago studiando la posizione del battello. Quando lo vedeva a un centinaio di metri dal pontile si metteva un “loden” color piombo, calzava un berretto e andava al porto. Lo vedevo traversare la piazza con la mantellina del pipistrello che gli svolazzava sulle spalle e il viso piegato in avanti contro il vento del lago».
Una di queste mattine andrò a Luino presto, e magari sul molo lungo dietro il caffè Clerici mi capiterà di vedere un signore dal grande cappello a cupola, immobile sotto la madonnina del lago a fiutare il vento come il Brovelli. Di certo stasera, prima di dormire, leggerò qualche pagina del "Piatto piange”, cercando a mia volta di non versare lacrime.