L'esposizione ha un titolo accattivante, “Dialoghi d'arte. Giochi di rimando tra Otto e Novecento”, apre alle 11, alla fine del vernissage c'è pure da mangiare. Usciranno i varesini dalle tane? Allungheranno il passo oltre l'emporio di intimo firmato e la mente oltre l'Apollo con l'oliva e il metraggio del suv? Alle 10,55 il dubbio diventa certezza, non sono usciti.
La ragazzina sarda ritratta da Biasi da Teulada guarda con gli occhioni malinconici le sale semivuote, popolate soltanto da qualche collezionista milanese, rari amici, dal fotografo di una rivista glamour e dal pittore Luca Lischetti, unico a rappresentare la categoria degli artisti locali, che a una mostra dovrebbero accorrere a frotte, anche soltanto per commentare e scambiarsi pareri. Piaccia o non piaccia il genere.
Giuseppe Biasi da Teulada, “Ragazza sarda” (1920/'25). |
Nessun collega gallerista, nessun direttore di museo, nessun critico d'arte, nessun giornalista a mostrare un piccolo segno di curiosità intellettuale magari al di fuori dei propri interessi, giusto così per imparare qualcosa di nuovo. Nessun insegnante, che magari per sbaglio entra a vedere e pensa poi di portare la sua classe in visita. Nemmeno le damazze del biscottino (ahimè al buffet c'è solo salato). Non parliamo di assessori, sindaci e burocrati collaterali. Certo, si tratta di una galleria privata, non di un museo, esiste un commercio dell'arte, i quadri da che mondo è mondo si vendono e si acquistano, Italo e Antonella devono pur vivere.
Ci si domanda: «è una mostra troppo difficile? Costringe a fare riflessioni?» C'è il catalogo che spiega tutto, basta leggere. Non si vuole far lo sforzo, si osserva e si chiede. L'ingresso è libero e gratuito, più di così. C'è pure un quadro di De Bernardi, massima citazione colta del varesino medio che si picca di saper d'arte, assieme a quella di Salvini (Innocente, non Matteo). Già Montanari impegna di più.
Però entrare in una galleria privata è un passo difficile, a un'inaugurazione poi! Chissà che noia, bisogna vestirsi bene, magari qualcuno fa anche il discorso, il mattino del sabato poi, che idea. Ci fossero almeno gli Impressionisti!
Ludovico Zambeletti, “Le amiche (L'ora del tè)”, 1928 |
Mai Varese è stata così culturalmente cadaverica, indifferente e tremendamente provinciale. Ritorta su se stessa e sui suoi personalismi, impermeabile e impenetrabile alle idee appena appena “fuori onda”, tanto da fare sembrare Como e Chiasso Parigi e New York.
Lo Studio ArteIdea è un sopravvissuto, un relitto del '900, cerca di organizzare mostre come una volta, con il catalogo, gli inviti stampati, le didascalie al piede del quadro, i banner. Dietro l'attività commerciale c'è la passione, vera e “folle” di chi ha un piacere fisico nell'acquistare un'opera e un dispiacere altrettanto forte nel doverla vendere, perché il gallerista vero è prima di tutto un collezionista, un “amante”, nell'accezione sensuale del termine. Una mostra d'arte è innanzitutto un omaggio prezioso alla città, un modo di mantenerla viva, di far incontrare persone diverse e differenti curiosità. In una parola, fare cultura. Da qualche parte, ancora funziona.
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