Camicie. Sono il simbolo, la bandiera, dei candidati sindaci di Varese. Le ostentano "nature”, senza giacca e senza cravatta, fresche di stiratura, senza aloni ascellari perché finora non ha fatto caldo, maniche regolarmente abbottonate e qualche volta, nell'enfasi dialettica o nel santino elettorale, rivoltate all'insù, ma con moderazione.
La camicia nuda dà l'idea del fare, «volta su i manigh e lavùra», motto del varesino tipo, invita gli elettori a riflettere sulla volontà del candidato a cambiare lo status quo, a dar olio ai gomiti come si fa in casa quando si ripara il guasto alla lavatrice o al tosaerba. Via giacca o maglione, camicia e mani all'opera. All'americana.
Ci fu anche chi, oltre alla camicia (nera), si tolse anche la canotta e partì a trebbiare il grano con maschia decisione, e non è detto che prima del voto si arrivi anche a un pretendente a torso nudo, perché di fronte a un consenso in più il politico si mette a far cose che si vedono soltanto ai matrimoni, dove anche Pitagora regredirebbe a fare le aste.
Galimberti la ostenta azzurra, “button-down”, meglio se fuori dal pantalone, da ragazzo della porta accanto, l'Orrigoni la indossa candida, colletto Scappino e cravatta blu marina, rigorosamente contenuta dalla cinta, Malerba preferisce una polo "tatuata” da scritte varie, ma lo si vede spesso anche in maglione blu, alla Berlusca della prima ora. In questo caso la camicia, azzurra, spunta con il colletto molto allargato, non vorremmo dire stazzonato. Ma un rugbista se ne frega del bon ton.
Gli altri candidati sembrano invece estrarre ogni mattina un bussolotto dall'armadio in cui un Armani dei clochard abbia vergato un suo pensiero sulla moda, nel quale non sono previsti abbinamenti cromatici o stilistici, ma soltanto consigli per acchiappare a caso magliette, giubbottini, jeans destrutturati o terrificanti giacchini di camoscio. Fantozzi a confronto, avrebbe sfilato per Calvin Klein.
Cosa fa il candidato sindaco in maniche di camicia? Cose che una volta eletto non farebbe nemmeno di fronte ad Hannibal Lecter, tipo andare in bicicletta per le vie del centro con codazzo di bambini di ogni età, girare per i quartieri come un tempo facevano le dame di carità, diventare il mandante di vignette da giornaletto del ginnasio, comparire a sorpresa in uno dei gazebo e convincere l'elettore che è proprio lui in carne e ossa e non la sagoma di cartone ritagliata.
Poi cerca di radunare “facce nuove per la nuova Varese”, raschiando in realtà il fondo di vari barili, attingendo a fondi di magazzino di antichi partiti e a residui (a volte tossici) della cosiddetta “società civile”, si fa scrivere un paio di slogan e per il resto va a braccio, recitando un copione vecchio di quarant'anni.
La caserma, piazza della Repubblica, il teatro, le stazioni, il caos viabilistico, il degrado, il parcheggio alla Prima Cappella, il nuovo stadio, la sicurezza, la busa noeuva e quella vecchia, via gli spacciatori dal monumento del Butti, Varese ai varesini, il Varese in serie B, più attenzione ai disabili, le cene solidali, il Piantone che defunge, lo sport è un valore, cloniamo il Giuan Borghi, ripartiamo dalla cultura e da villa Panza, puliamo i tombini, rendiamo i sottopassi candidi come cliniche svizzere, più verde pubblico e meno privato, mercatini dei sapori più sapore ai mercatini. Le imprese le imprese le imprese. Il turismo il turismo il turismo. Il lago e il Sacro Monte, via le antenne dal Grand Hotel, più funicolare e meno gesticolare, il canottiere ci salva dal bancarottiere, gli stranieri amano Varese, non è vero che qui non succede mai niente. Le tradizioni e il territorio. Guardate il monte Rosa e i laghi, un panorama così non ce l'ha nessuno.
Dopo dieci anni di nulla elevato a sistema, stufo di osservare il paesaggio che gli stranieri tutti ci invidiano, il varesino (ma quanti ne sono rimasti?) alza il sopracciglio e si rimette a lavorare (chi può) e a pagare (anche chi non può) aspettando il candidato sindaco ormai sindaco pedalante in piazza Monte Grappa, al quartiere delle Bustecche o a Bizzozero, ad adorare James Turrell a villa Panza, oppure a porre la prima pietra del famigerato teatro nella nuova piazza Repubblica dei nuovi varesini, coi giardinetti e i campi di bocce. Caramelle non ne voglio più.
Ci sarà un altro inverno, le camicie si ricopriranno di gilet e giacchette, i candidati perdenti ritorneranno a macinare lavoro e sotterranee alleanze, preparando futuri gazebi, immersioni nel popolare e gigantografie in famiglia attacchinate per la città. La nuova Varese dei nuovi varesini sarà già vecchia, ci saranno freschi favori e antichi rancori, gli happy few, ritoccati dai chirurghi estetici del clientelismo, rinforzeranno la loro happiness, mentre i tombini rimarranno intasati, i sottopassi inzaccherati, e il Monte Rosa sempre là, coi ghiacci un po' corrosi dal caldo tropicale, ma invidiatissimo dagli australiani dell'hub, dagli americani e dai tedeschi, che si fermano tre giorni in città, fanno shopping da Gucci, alloggiano a cinque stelle, mangiano al Luce e pensano che tutto sia wonderful. È il made in Varese, bellezza.
O, come diceva il Zachiell, il contadino filosofo creato dalla penna di Speri Della Chiesa: «Fumm de padelott».
Gli altri candidati sembrano invece estrarre ogni mattina un bussolotto dall'armadio in cui un Armani dei clochard abbia vergato un suo pensiero sulla moda, nel quale non sono previsti abbinamenti cromatici o stilistici, ma soltanto consigli per acchiappare a caso magliette, giubbottini, jeans destrutturati o terrificanti giacchini di camoscio. Fantozzi a confronto, avrebbe sfilato per Calvin Klein.
Cosa fa il candidato sindaco in maniche di camicia? Cose che una volta eletto non farebbe nemmeno di fronte ad Hannibal Lecter, tipo andare in bicicletta per le vie del centro con codazzo di bambini di ogni età, girare per i quartieri come un tempo facevano le dame di carità, diventare il mandante di vignette da giornaletto del ginnasio, comparire a sorpresa in uno dei gazebo e convincere l'elettore che è proprio lui in carne e ossa e non la sagoma di cartone ritagliata.
Poi cerca di radunare “facce nuove per la nuova Varese”, raschiando in realtà il fondo di vari barili, attingendo a fondi di magazzino di antichi partiti e a residui (a volte tossici) della cosiddetta “società civile”, si fa scrivere un paio di slogan e per il resto va a braccio, recitando un copione vecchio di quarant'anni.
La caserma, piazza della Repubblica, il teatro, le stazioni, il caos viabilistico, il degrado, il parcheggio alla Prima Cappella, il nuovo stadio, la sicurezza, la busa noeuva e quella vecchia, via gli spacciatori dal monumento del Butti, Varese ai varesini, il Varese in serie B, più attenzione ai disabili, le cene solidali, il Piantone che defunge, lo sport è un valore, cloniamo il Giuan Borghi, ripartiamo dalla cultura e da villa Panza, puliamo i tombini, rendiamo i sottopassi candidi come cliniche svizzere, più verde pubblico e meno privato, mercatini dei sapori più sapore ai mercatini. Le imprese le imprese le imprese. Il turismo il turismo il turismo. Il lago e il Sacro Monte, via le antenne dal Grand Hotel, più funicolare e meno gesticolare, il canottiere ci salva dal bancarottiere, gli stranieri amano Varese, non è vero che qui non succede mai niente. Le tradizioni e il territorio. Guardate il monte Rosa e i laghi, un panorama così non ce l'ha nessuno.
Dopo dieci anni di nulla elevato a sistema, stufo di osservare il paesaggio che gli stranieri tutti ci invidiano, il varesino (ma quanti ne sono rimasti?) alza il sopracciglio e si rimette a lavorare (chi può) e a pagare (anche chi non può) aspettando il candidato sindaco ormai sindaco pedalante in piazza Monte Grappa, al quartiere delle Bustecche o a Bizzozero, ad adorare James Turrell a villa Panza, oppure a porre la prima pietra del famigerato teatro nella nuova piazza Repubblica dei nuovi varesini, coi giardinetti e i campi di bocce. Caramelle non ne voglio più.
Ci sarà un altro inverno, le camicie si ricopriranno di gilet e giacchette, i candidati perdenti ritorneranno a macinare lavoro e sotterranee alleanze, preparando futuri gazebi, immersioni nel popolare e gigantografie in famiglia attacchinate per la città. La nuova Varese dei nuovi varesini sarà già vecchia, ci saranno freschi favori e antichi rancori, gli happy few, ritoccati dai chirurghi estetici del clientelismo, rinforzeranno la loro happiness, mentre i tombini rimarranno intasati, i sottopassi inzaccherati, e il Monte Rosa sempre là, coi ghiacci un po' corrosi dal caldo tropicale, ma invidiatissimo dagli australiani dell'hub, dagli americani e dai tedeschi, che si fermano tre giorni in città, fanno shopping da Gucci, alloggiano a cinque stelle, mangiano al Luce e pensano che tutto sia wonderful. È il made in Varese, bellezza.
O, come diceva il Zachiell, il contadino filosofo creato dalla penna di Speri Della Chiesa: «Fumm de padelott».
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