Biandronno era l’odore del bosco, era l’occhio di fuoco della stufa economica che zia Rita alimentava coi legn portati su a braccia dal deposito con il grande secchio di lamiera, era il grigio del lago d’inverno, era la canna lancio di papà, con il mulinello per me magico, il tac che segnava l’arresto del filo dopo il ciuff del cucchiaino nell’acqua. Biandronno è stato l’infanzia, a 13 anni partii da Varese a piedi per raggiungere via Mazzini e fare una sorpresa alla zia, incontrai per strada un gatto siamese e ci parlammo per un po’, io con le parole lui con dei miao sommessi e la coda alzata. Arrivai alle 11, avevo fatto il Sasso di Gavirate e poi su da Bardello, ma la Rita non c’era, lei non usciva quasi mai ma quella mattina chissà dov’era, forse “a pruved” forse dalla Zita, “un’amisa di so”, sarta e vedova che viveva in una corte poco distante. Arrivò verso mezzogiorno, e quasi lanciò un urlo vedendomi lì da solo, davanti al portone di casa con il mio berrettino e gli occhiali da sole: «Te set chi de partì?», non poteva credere che fossi arrivato a piedi, 15 chilometri nel traffico, ma erano gli anni delle mie sfide, presto con il Ciao sarei andato a San Nazzaro Val Cavargna in giornata, 80 chilometri andata e altrettanti ritorno, al vecchio oste amico di papà quasi venne un colpo quando mi vide entrare al bar in solitaria, felice e beato. Ancora con gli occhi cercava una macchina di supporto, magari quella di mio padre, non si capacitava fossi arrivato fin là con un ciclomotore. Avevo un paio di occhiali Baruffaldi da far invidia ad Agostini, ovviamente niente casco -era il 1973- una bisaccia a tracolla con la borraccia dell’acqua e il resto era incoscienza di gioventù. Ma la mamma vespista non disse niente, mi lasciò partire, lei ne aveva fatte di peggio con la 125 nel 1955, passo del Sempione e Varese Loano on the road, con tanto di gallerie, Capra Zoppa e passo del Turchino.
Un’altra volta, anni 16 più o meno, salii in cima al campanile di Biandronno per fotografare il paese dall’alto, con l’Olympus OM2 che chi se non papà mi aveva regalato, decidendo su due piedi mentre camminavamo sul sentiero per il Forte di Orino. «Devi imparare a fotografare, a me è sempre piaciuto ma non avevo tempo per farlo. Ami la natura, puoi “tirar giù” dei bei paesaggi e anche riprendere gli animali. Ti compero una bella macchina», mi disse, lui che aveva perfino acquistato una cinepresa e fatto i filmini Super8 al mare quando eravamo bambini. Il giorno dopo eravamo al Photo Center di Varese, e la reflex col cinquantino era mia, usato garantito ma ottima per incominciare, ho ancora in giro qualche bianco e nero del Sacro Monte e del lago.
Biandronno dal campanile era una sequenza di tetti, la via Mazzini a tagliarli, da lì un tempo passavano i carri del fieno, poi gli infernali pullman del Somaré -la famosa “curiera dul Somaré” che la zia prendeva per andare a Travedona o a Gavirate- oggi i Tir con rimorchio che fanno il pelo alla casa. Si vedeva anche un pezzo di laghetto, il lago con il trampolino, e il campo sportivo dove anch’io tirai qualche calcio di straforo, passando sotto alla rete lassa vicino alla cancellata.
A quei tempi parroco era il don Paolo, un prete da battaglia, mezzo comunista e proletario, imbiancava, piallava, segava, lo vedevi sempre su qualche scala a picchiare col martello, esaudiva ogni mio desiderio, compreso quello di suonare all’organo mie fumose composizioni e addirittura di portare in chiesa l’impianto stereo Akai (ovviamente un altro regalo di papà) per accompagnare la messa con le musiche di Beethoven, Mozart e perfino Vivaldi con tanto di presentazione prima di salmi e Vangelo. C’era chi si beccava la scomunica per molto meno. La mamma mi accompagnò con la 126 arancione, scaricammo casse, cavi e tutto quanto e il disc jockey liturgico era pronto, qualcuno perfino applaudì.
E poi la barca, che papà comperò quando andò in pensione, con un bel motore Johnson -lui diceva «scionson»- che mai andò bene per cui i remi erano l’unica sicurezza assieme all’olio di gomito. La teneva dalla zia Rita, e ogni volta partivamo da casa con la barca montata sul carrello, spingendola a mano fino allo scivolo del trampolino per poi vararla in acqua e partire per la pesca. Il bello però veniva al ritorno, perché dal trampolino partiva una ripida salita e tirar su barca e carrello in due era un’impresa, allora sperimentammo il traino con la Fulvia 2C. Papà andava a prenderla dalla zia, veniva al lago, io entravo nel bagagliaio assieme a canne e cestino coi pesci e tenevo con tutte le mie forze il manico del carrello, la salita era fatta e lo strano corteo passava per via Mazzini, con qualche donnetta a spiare da dietro le tende scuotendo la testa.
Ogni sabato papà, a casa dalla banca, mi portava a Biandronno, ma il giro incominciava a Comerio, dal macellaio Talamona, dove ogni tanto prendeva un aliolo e di solito le costate e le cotolette per la mamma, il lesso per Natale, poi qualche volta c’era la tappa di Gavirate, dal Veniani per un sacchetto di Brutti e Buoni, e alla fine visita alla zia Rita, che tirava fuori “ul marsalin” per sé e il papà e i “bischi” per me, mentre la legna scoppiettava nella stufa economica, dove «gh’era su la minestra a coeus». Se il tour era di pomeriggio, spesso si andava dalla zia Mariuccia, che viveva vicino alla “Strencia” in mezzo a galline e conigli, per me un vero bengodi, con il profumo dell’erba appena tagliata e i “oeuv fresch” tirati su dal pollaio e arrotolati nella carta di giornale assieme a qualche gladiolo e rosa per la mamma. A colazione, domani, avrei mangiato il “coccorino” più buono del mondo, con il tuorlo sbattuto e un cucchiaino di zucchero, e negli occhi ancora l’immagine del gallo della zia impettito e solenne davanti al pollaio.
La zia Mariuccia, rimasta vedova molti anni prima, parlava di sua figlia Lucia e del Fausto, il marito, «che hinn denter a r’Ignis a laurà par ul Borghi», e con papà e zia Rita della Biandronno di una volta, il Vitalian, il Della Chiesa del distributore di benzina, ul maister Masciadra coscritto di mio padre, il dottor Torretta e ul Cerian, medico del Varese Calcio e amico del Borghi, compagno di mangiate di pesce all’Isolino ai tempi del Giordano, magnifico cuoco poi finito a gestire un ristorante a Loano. Dopo le chiacchiere ritornavamo in via Mazzini e la prossima tappa era la fonte dei Ciossitt, giù per una stradina sterrata verso il laghetto di Biandronno. Qualche fiasco e bottiglie di vetro e si faceva rifornimento di quell’acqua freschissima e pura che la zia Rita beveva da anni e consigliava a chiunque come un elisir di lunga vita. Lei aveva fatto a tempo ad attingere l’acqua dal pozzo di casa, come testimonia un’ingiallita fotografia della giovane Rita, col “scussarin” e il secchio, sul viso un timido sorriso.
Zia Rita al pozzo della casa di via Mazzini |
I ricordi affiorano come le ossa di mammuth dai ghiacci, e quelli legati a papà parlano di estati al lago, fuori dalla darsena del “Paolon” Della Chiesa a pescare a fondo per tirar su gobbini, persici, qualche boccalone e anguille, quasi mezzo secolo fa, con cinque o sei barche una in fila all’altra e pesce per tutti. «’Na quai volta nemm denter a r’Isula a mangià», diceva papà, che quando tornava a Biandronno parlava più volentieri in dialetto, ma non erano più i tempi di quando sulla terrazza ballava al suono della fisarmonica e all’imbrunire i pescatori approdavano con persici e lucci da lasciare al Giordano da cucinare per le tavolate della domenica.
Finita l’estate, Biandronno offriva i frutti del “nost bosch”, sulla via per Travedona, preparavamo le sporte e poi eccoci in loco, chini a romper ricci con le scarpe e tirar fuori “i russitt”, le piccole castagne color scoiattolo da fare arrosto con la pentola bucherellata, qualche mazza di tamburo e i “ciuditt”, assonanti al nostro cognome. A fine novembre, per papà c’era un rito, quello della raccolta dei cachi dall’albero che suo padre aveva piantato in giardino, quando la casa di Biandronno era fanciulla e sulla facciata cresceva un’enorme vite canadese. Sulla scala a pioli, papà arpionava i cachi con un arnese speciale, un cerchio di ferro con sotto un piccolo sacco in cui cadeva il frutto maturo.
Ero addetto allo stoccaggio, l’albero era generoso e ogni anno si riempivano diverse cassette, lasciate poi al buio della cantina, dove mio padre conservava “ul vin del Bottazzi”, che acquistava dai tempi in cui lavorava nella filiale del Credito Varesino di Besozzo. L’etichetta con il faro mi è ancora familiare come il nome di vini che allora mi sembravano oscuri, Rionero, Aleatico, Spanna, e nella cantinetta di Varese ancora ne sono conservate alcune bottiglie ormai quasi ottantenni, piene di ragnatele.
Il "nost bosch” sulla strada per Travedona |
Questa era la mia Biandronno, e ora che la casa dei Chiodetti non c’è più, ci ritorno per cercare le tracce di una splendida infanzia, l’odore del lago, quello che resta dei Ciossitt con la fonte ormai contaminata, il “nost bosch” che ancora quest’autunno mi ha regalato cinque chili di rossine, il frutteto che papà aveva ricavato da un podere di famiglia, la via del trampolino che tra poco non sarà più la stessa, la chiesa, con il campanile sul quale non riuscirò più a salire, e la piazzetta antistante, dove bambino vidi piantato uno degli ultimi alberi della Cuccagna.
Ravanando nella grande scatola di cartone che un tempo conteneva bottiglie di Fernet Branca e ora le vecchie fotografie di famiglia, ho trovato una fotocartolina che il più caro amico di gioventù di mio padre, l’Antonio Giuliani, croupier al Casinò di Venezia, grande appassionato di lirica e collezionista di cartoline, spedì a Franco dalla laguna il 24 agosto 1952. Era uno scatto che lui stesso gli aveva fatto all’Isolino Virginia trasformato in cartolina Ferrania dallo studio Costantini di Venezia, come si legge nel timbro proprio sopra la data. Papà ha 31 anni, è abbronzato, magro, veste una camicia a maniche corte da cui traspare la maglietta della salute, pantaloni leggeri con risvolto e tra le dita della sinistra tiene una sigaretta, perché da giovane aveva fumato per un po’, però col filtro, salvo mettere un giorno il pacchetto sul tavolo e non toccarlo mai più. Un “lion” di paese del tempo, appassionato di musica e tenore di grazia, già attore al teatrino di Biandronno, pilota di un “Galletto” Guzzi 192, poi di una Fiat Topolino, impiegato al Credito Varesino e ottimo partito.
Papà all'Isolino Virginia nel 1952 |
L’amico Antonio lo piglia un po’ in giro, ma non tanto, nel testo della cartolina, che trascrivo integralmente: «Tutte le ragazze del Lido, quelle belle, hanno cercato quest’angolo di spiaggia e nella speranza di ritrovare il raffigurato. Non si sono accorte che era l’Isolino. Sta accorto che non ti capitino tutte a Biandronno. Hanno certe gambe! Saluti, Antonio». Papà se ne è andato a 100 anni, senza aver mai raccontato molto della sua giovinezza, e questo suo aspetto di latin lover lacustre un po’ alla Rossano Brazzi mi mancava, anche se ravanando ancora tra le vecchie fotografie ne son saltate fuori alcune dove lui è attorniato da due ragazze biandronnesi rimaste anonime, acconciatura anni Quaranta, sopracciglia disegnate e un sorriso da Trio Lescano. Evviva papà, anche tu hai avuto i tuoi flirt, ma riservato com’eri non ne parlavi mai, ora l’Antonio, dopo 73 anni, si fa vivo con queste righe scritte con la stilografica che leggo per la prima volta, e così voglio ancora più bene al “raffigurato”, un giovane uomo felice nel primo Dopoguerra che la domenica andava all’Isola Virginia a mangiare e ballare in compagnia, una partita a carte e poi il ritorno in via Mazzini, con la mamma Caterina e la Rita, pronto a tornare al lavoro il lunedì in qualche filiale del Credito in sella prima al “Guzzino” e poi al “Galletto”.
L'Isolino Virginia ai tempi belli |
Andando avanti negli anni, mi accorgo di ripetere i suoi gesti e sono attratto irresistibilmente da Biandronno, che visito al volante della sua vecchia Bmw 316 come lui fece fino a 93 anni per poi smettere la guida dicendo: «Ci sono troppi matti in giro». Lascio la macchina dove la parcheggiava e ricerco i luoghi dove ha vissuto, percorro la via Mazzini, vado alla Strencia, mi soffermo davanti al teatrino, scendo al trampolino e ricordo quando mi diceva che, da ragazzo, faceva il bagno lì bevendo l’acqua del lago e «sun mai mort». Visito mia cugina Lucia, sua nipote, e con lei scorro vecchie cartoline del paese e i ricordi di famiglia scivolano via, uno dopo l’altro.
Papà e io sul lungolago di Biandronno nel 1962 |
In una fotografia che mi distrugge il cuore, sono accanto a lui proprio su uno dei sassi della riva, ho quattro anni e appoggio la mia mano sul suo braccio. Franco è al solito elegante, pullover a V, camicia e cravatta e in testa il suo feltro marrone, con la piumetta di fagiano nella fascia di seta. Lui sorride alla mamma che scatta, io sono serio, un ometto con il berrettino chiaro e il maglioncino, la mano sinistra in tasca. Papà ha la canna lancio con il mulinello, la mia preferita, con l’impugnatura in sughero, «magari a càtum on quai pess perzich», lì allora c’erano e ogni tanto qualcuno abboccava al cucchiaino colorato.
Quei sassi li conosco a uno a uno, ci ho trascorso anni a pescare i gobbini sotto la darsena della villa Fara, a volte tiravo su anche qualche cavedano. Ma quello scatto perfetto è il più bel ricordo visivo che ho di mio padre, la sua essenza di uomo di lago, di padre affettuoso e generoso, sempre pronto ad aiutare senza mai chiedere niente in cambio. «Noi due siamo uguali», mi ripeteva negli ultimi giorni della sua lunga esistenza. È stato il più grande regalo che potesse farmi.
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